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Di una semplicità e obiettività disarmante 

7/16/2014

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Senza andare molto indietro nel tempo, anche perché sarebbe peggio, la domanda è: perché israeliani e palestinesi sono di nuovo in guerra (ammesso che prima fossero in pace)? Segue timelime:

Militanti di Hamas hanno rapito e poi ucciso tre ragazzini ebrei, in quanto ebrei, che stavano tornando a casa, in un insediamento ebraico in Cisgiordania, dopo essere stati a scuola. Di fronte a questo atto violento e ideologicamente nazista c’è stata poca attenzione dei media e della comunità internazionale. C’erano i mondiali di calcio.

Israele allora ha arrestato centinaia di palestinesi, compresi alcuni ex prigionieri che erano stati da poco rilasciati come segno di buona volontà in vista di nuovi colloqui di pace. Sempre distante l’attenzione pubblica. C’erano ancora i mondiali. Giusta attenzione, invece, quando un gruppo di criminali israeliani ha ucciso per rappresaglia un bambino palestinese. Israele ha subito individuato e arrestato i colpevoli. E qui c’è tutta la differenza tra uno Stato di diritto e un’organizzazione criminale al potere.

Hamas quindi ha cominciato a lanciare missili, a centinaia, su città e villaggi israeliani con l’intento di uccidere civili ebrei, il più possibile. Soluzione finale fai-da-te. Nessuna reazione di media e opinione pubblica internazionale.
Queste cose non fanno molta notizia anche perché gli ebrei, con l’Iron Dome che intercetta e colpisce quasi tutti i missili ancora in volo, questa volta hanno la colpa di non essere stati sterminati.

Israele, infine (almeno si spera), ha risposto bombardando i centri di raccolta dei missili, che i simpaticoni di Hamas custodiscono tra le abitazioni civili (crimine di guerra, ma mai quanto il morso di Suarez) e colpendo i leader islamisti. Il mondo allora, finalmente, insorge e torna in pista perfino Nichi Vendola, sventolando la bandiera della pace.

È sempre così. Sempre. Ogni volta.

Così come, da sempre, ogni volta, se fai notare chi, come e perché vuole la guerra ti si risponde che non si può ragionare così, perché questo non è un derby, non è roba da tifoserie, non è un gioco, anche se ovviamente chi lo dice è quasi sempre super impegnato nel derby, tifa e gioca, però con l’altra parte (semi citazione di Hitchens a proposito dei difensori di fatto del regime di Saddam).

L’ultima trovata retorica contro l’evidenza dei fatti (l’evidenza dei fatti è questa: le leadership israeliane saranno stronze ma non vogliono altro che vivere in pace e se possibile godersi la vita; quelle palestinesi e dei loro alleati rinfocolatori saranno oppresse ma vogliono in primis sterminare gli ebrei, in quanto ebrei)… l’ultima trovata retorica, dicevo, è quella del "siamo stanchi", "basta", "questa nuova normalità è insopportabile". Forse (forse) cominciano a rendersi conto che la violenza teocratico-belluina di Hamas è indifendibile, anche perché non c’è più la generazione politica alla Max D’Alema, alla Bettino Craxi e alla Giulio Andreotti a dare manforte ideologica al terzomondismo filo arabo nostrano.

Comunque, tranquilli, non sono mai stanchi i titolisti dei giornali e i troll su internet (rappresaglia, israeliani nazisti eccetera sono sempre un must).

L’unica cosa mezza sensata potrebbe essere criticare Israele in questo modo (notate però che quando c’è la destra al potere si usa dire "Netanyahu", come a sottolineare "quel fascista", e non "Israele" e giammai "gli ebrei", quando invece la difesa attiva dei cittadini e dello Stato da chi tira i missili e vuole cancellare il paese dalla carta geografica è ovviamente comune): ok, voi vi difendete e mostrate i muscoli, ma così non costruite nulla per il futuro e non fate altro che conquistare tempo in attesa della crisi e dei rapimenti e dei missili successivi.
Questa è una critica seria, però vista da qui, dalle spiagge assolate del Mediterraneo, tra una diretta Sky da Copacabana e il pagamento dell’Imu.

Chiunque si trovi lì mi pare ovvio che in questa situazione agirebbe esattamente come Netanyahu e come tutti i leader politici israeliani, di destra e di sinistra: intanto proteggendo la popolazione e colpendo i capi lanciatori dei missili, per farli fermare, e poi si vede.
E qui va dato atto a Netanyahu che 14 anni dopo la seconda Intifada con stragi di ebrei quotidiane ne ha guadagnato tanto di tempo e di vite dei suoi concittadini, grazie al muro di difesa che impedisce ai kamikaze di farsi saltare facilmente in aria nelle pizzerie israeliane e al Dome di protezione aerea di produzione iraniana.
E naturalmente quelli del derby erano contrari al "Muro", avrebbero preferito l’ingresso libero (con paragoni assurdi col Muro di Berlino, quando quello fu costruito dai carcerieri comunisti per impedire ai propri cittadini di scappare verso la libertà, e questo invece per impedire agli svalvolati religiosi aizzati dalle peggiori teocrazie islamiche di esportare la morte e di distruggere la libertà dei propri cittadini).

E del resto quando la leadership israeliana ha fatto altro, tipo ritirarsi da Gaza, quindi l’opposto dell’occupazione e dell’uso della forza militare, la risposta è stata la costituzione di un avamposto islamista a pochi chilometri da Tel Aviv (e dall’Egitto). Sì, ci fu anche chi contestò quella scelta "unilaterale" israeliana, perché Israele è sempre colpevole sia se invade sia se si ritira.


da
http://www.camilloblog.it/archivio/2014/07/12/israele-gaza/ (Cristian Rocca)
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La spietata verità

5/16/2014

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Un anno fa la città di Boston era ancora in lutto. Alle famiglie che una settimana prima avevano figli e fratelli da abbracciare erano rimaste solo le fotografie e i ricordi. Altri erano ancora davanti ai letti degli ospedali a guardare giovani uomini, ragazze, bambini affrontare operazioni chirurgiche dolorose e menomazioni permanenti. Tutto questo perché due fratelli, influenzati da siti internet jihadisti, hanno deciso di lasciare vicino alla linea d’arrivo di uno degli eventi più importanti dello sport americano, la maratona di Boston, due bombe fatte a mano nascoste dentro a degli zaini. Tutti voi della classe del 2014 non dimenticherete mai quel giorno e i giorni successivi. Non dimenticherete mai il momento in cui avete appreso la notizia, dove eravate o cosa stavate facendo. E quando ritornerete qui, tra 10, 15 o 25 anni, vi tornerà tutto in mente. La bomba è esplosa appena a 10 miglia dal campus. Tempo fa ho letto un articolo che diceva che gli adulti non hanno molti ricordi della loro vita prima degli otto anni. Questo significa che uno dei vostri primi ricordi potrebbe essere la mattina dell’11 settembre.

Voi meritate ricordi migliori dell’undici settembre e dell’attentato alla maratona di Boston. E non siete i soli. In Siria almeno 120 mila persone sono state uccise, non in battaglia, ma in massacri di massa, a causa di una guerra civile che si combatte sempre più sul filo della divisione settaria. La violenza sta aumentando in Iraq, Libano, Libia, Egitto. Molto più di quanto non fosse quando voi siete nati, oggi la violenza è concentrata soprattutto nel mondo musulmano. Un’altra caratteristica dei paesi che ho appena nominato, e del medio oriente in generale, è che la violenza contro le donne sta aumentando. In Arabia Saudita c’è stato un aumento notevole nella pratica della mutilazione genitale femminile. In Egitto ci sono fino a 80 casi di violenza sessuale al giorno e il 99 per cento delle donne dice di aver subìto molestie.

E’ preoccupante soprattutto il modo in cui la legislazione conferma lo status delle donne come cittadine di second’ordine. In Iraq è stata proposta una legge che abbassa a 9 anni l’età minima per il matrimonio delle bambine. Questa legge dà al marito il diritto di negare a sua moglie il permesso di uscire di casa. Questo elenco di diritti è tristemente lungo. Spero di parlare a nome di molti quando dico che questo non è il mondo che la mia generazione sperava di lasciarvi in eredità. Quando siete nati l’occidente era in trionfo, il comunismo sovietico era appena stato sconfitto. Una coalizione internazionale aveva cacciato Saddam Hussein dal Kuwait. La missione successiva delle Forze armate americane sarebbe stata contro la carestia nella mia terra natale, la Somalia. Non esisteva un dipartimento della Sicurezza interna e pochi americani parlavano di terrorismo.

Vent’anni fa nemmeno il più cinico dei pessimisti avrebbe anticipato tutto quello che è andato storto nella parte del mondo in cui sono nata. Dopo così tante vittorie per il femminismo in occidente, nessuno avrebbe previsto che i diritti basilari delle donne sarebbero stati ridotti in moltissimi paesi mentre il Ventesimo secolo lasciava spazio al Ventunesimo.

Oggi tuttavia parlerò di un futuro migliore, perché penso che il pendolo abbia già oscillato troppo dalla parte sbagliata. Quando vedo milioni di donne in Afghanistan sfidare le minacce dei talebani e mettersi in fila per votare; quando vedo le donne in Arabia Saudita sfidare l’assurdo divieto di guidare; e quando vedo le donne tunisine celebrare l’arresto di un gruppo di poliziotti per un atroce stupro di gruppo, mi sento più ottimista di quanto non fossi qualche anno fa.

La mal definita primavera araba è stata una rivoluzione piena di delusioni. Penso tuttavia che abbia creato l’opportunità di sfidare le forme di autorità tradizionale – compresa l’autorità patriarcale –, e perfino di mettere in discussione le giustificazioni religiose per l’oppressione delle donne. Ma per soddisfare questa opportunità, noi occidentali dobbiamo offrire la giusta dose di aiuto. Esattamente come la città di Boston un tempo è stata la culla di un nuovo ideale di libertà, dobbiamo ritornare alle nostre radici diventando ancora una volta il faro del libero pensiero e della libertà del Ventunesimo secolo. Davanti a un’ingiustizia dobbiamo reagire, non soltanto con la condanna, ma con azioni concrete.

Uno dei posti migliori per farlo è nei nostri istituti di istruzione superiore. Dobbiamo rendere le nostre università dei templi non dell’ortodossia dogmatica, ma del vero pensiero critico, dove tutte le idee sono le benvenute e dove il dibattito civile è incoraggiato. Sono abituata a essere fischiata nelle università, per cui sono grata dell’opportunità di potervi parlare oggi. Non mi aspetto che tutti voi siate d’accordo con me, ma apprezzo tantissimo la vostra apertura all’ascolto.

Sono qui davanti a voi come qualcuno che sta combattendo per i diritti delle donne e delle ragazze in tutto il mondo. E sono davanti a voi come qualcuno che non è spaventato di fare domande scomode sul ruolo della religione in questa battaglia. La connessione tra la violenza, soprattutto la violenza contro le donne, e l’islam è troppo chiara per essere ignorata. Non aiutiamo gli studenti, le università, gli atei e i credenti quando chiudiamo gli occhi davanti a questa connessione, quando cerchiamo scuse anziché riflettere.

Per questo chiedo: il concetto di guerra santa è compatibile con il nostro ideale di tolleranza religiosa? E’ blasfemia – punibile con la morte – mettere in discussione l’applicazione alla nostra èra di certe dottrine risalenti al Settimo secolo? Sia il cristianesimo sia l’ebraismo hanno avuto le loro riforme. E’ arrivato il tempo anche per una riforma dell’islam.

Queste argomentazioni sono inammissibili? Di certo non dovrebbero esserlo in un’università che è stata fondata dopo lo scandalo dell’Olocausto in un tempo in cui molte università americane ancora imponevano restrizioni agli studenti ebrei. Il motto della Brandeis University è “La verità, anche quella più inaccessibile”. E’ anche il mio motto. Perché è solo mediante la verità, la verità spietata, che la vostra generazione può sperare di fare meglio della mia nella lotta per la pace, la libertà e l’uguaglianza dei sessi.
di Ayaan Hirsi Ali

Copyright Wall Street Journal
Per gentile concessione
di MF/Milano Finanza


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Quei fischi inutili

10/23/2013

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La società italiana è fra le più avanzate sul piano scientifico, giuridico, artistico, tecnico. Quello che non possiamo, e non vogliamo fare, è essere costretti a comportarci come se, viceversa, fossimo poveri selvaggi, privi di capacità razionali che di fronte alle calamità si gettano in terra, gridando le proprie colpe al cielo e il proprio dolore al mondo nella speranza che la prossima volta il cielo e il mondo siano più clementi. I nostri governanti perciò la smettano di comportarsi come sciamani in terra d'Africa, con bandiere a mezz'asta legate al bastone alzato a supplicare gli Dei e i minuti di silenzio invocati col triplice suono del corno. Adesso basta menzogne. Vogliamo affrontare la questione degli immigrati a Lampedusa con la razionalità con la quale siamo allenati a risolvere le questioni in Italia, non con la mentalità di chi in Africa invoca le piogge. I morti di Lampedusa non li abbiamo ammazzati noi. Non erano italiani, venivano in Italia di propria volontà, senza autorizzazione, senza un lavoro, ma anche senza una necessità assoluta di scappare: non erano inseguiti dal nemico, avevano la propria casa e, come quasi ovunque in Africa, non mancavano né di cibo né delle cose indispensabili alla sopravvivenza. L'Africa, infatti, è povera soltanto perché gli africani non fanno nulla per non essere poveri e non sono capaci di organizzarsi.

Si sono imbarcati spendendo grosse cifre sotto la spinta di specifiche organizzazioni criminali che in Africa tutti conoscono benissimo così come sanno che entrare in Italia senza autorizzazione significa mancare a quella che non soltanto in Italia, ma in ogni paese, in ogni parte del mondo, è una legge iscritta fin dalle origini della società umana nel cuore, nella mente e nel diritto di ogni essere umano: la propria casa, la propria tenda, la propria grotta, la propria tettoia, il proprio paravento, è inviolabile. Nessuno vi può e vi deve entrare senza essere invitato da colui che vi abita e non può occupare neanche lo spazio della sua ombra. Non è mai stato necessario spiegarlo perché tutti gli uomini, dall'età della pietra in poi, l'hanno sempre saputo, anche quelli che vengono a Lampedusa. Lo straniero, l'estraneo, possiede un suo «mana», lo porta con sé e, positivo o negativo che sia, non può «contagiarlo» agli altri senza che gliene sia stato dato il permesso. Il territorio dell'Italia è la casa degli italiani. In nessuna casa italiana si può entrare, neanche la polizia lo può, senza autorizzazione. Chi lo fa è un criminale che la giustizia italiana condanna, anche se non ha rubato nulla. Non c'è nessuna casa, anche piccola e povera, che non abbia, in Italia, uno stuoino davanti alla porta: lo stuoino è il segnale, non che devi pulirti le scarpe, ma che, passandoci sopra, ti decontamini per entrare in uno spazio «altro», lo spazio sacro della persona che vi abita.

I nostri governanti, giustamente contestati ieri, esercitano una terribile violenza nei confronti degli italiani costringendoli a subire ogni giorno l'invasione di stranieri e caricando sulle loro spalle le sfortune di tutti costoro come se ne fossero responsabili. I ragazzi che in classe hanno dovuto osservare il minuto di silenzio per i morti di Lampedusa se ne sono meravigliati, hanno chiesto una spiegazione ai loro insegnanti: perché? Non abbiamo mai fatto il minuto di silenzio neanche per i nostri ragazzi morti in Afganistan, eppure erano italiani, erano stati uccisi per servire l'Italia, per servire noi.

(Ida Magli, dal giornale 10/10/2013)

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Un mondo senza arbitro

9/4/2013

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Con i sì del falco senatore McCain, dello Speaker della Camera Boehner e dell’House Majority leader Eric Cantor, repubblicani, e di Nancy Pelosi, leader dei deputati democratici, il presidente Barack Obama fa un passo, importante anche se non decisivo, per uscire dalla trappola siriana. L’ok del Congresso al raid punitivo contro Assad per l’uso dei gas appare, se non scontato, meno appeso agli umori partigiani di destra e sinistra.  

Comunque vada, si conferma una nuova stagione globale: rischiamo di vivere in un mondo senza arbitro, senza poliziotto di quartiere, nessuna superpotenza si farà più garante dello status quo, la Pax Americana, per quanto precaria, tramonta. Durante la Guerra Fredda Washington e Mosca governavano le loro sfere di influenza, con i Paesi non allineati dalla Conferenza di Bandung dal 1955 in poi a cercare spazio. Gli Stati Uniti provavano a contenere l’Urss, sostenendo Berlino durante il blocco russo e accettando l’invasione della Ce coslovacchia, come il Pcus non reagiva ai golpe filoamericani in America Latina. 

Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, il presidente Bush padre progetta quello che definisce un Nuovo Ordine Mondiale, democrazia anche a Mosca, garanzia Onu, gli Stati Uniti potenza benefica ad assicurare mercato globale, commerci, libertà. Quando Saddam invade il Kuwait, la coalizione funziona, l’Onu di Perez de Cuellar dà il via libera, europei e arabi si uniscono all’operazione, il Kuwait è liberato. Sembra una nuova strada, ma dura poco. A Mosca la stagione di Gorbaciov e Eltsin cede il Cremlino al nuovo panslavismo di Putin, ostile all’America e alla democrazia. Negli Usa il Nuovo Ordine Mondiale è osteggiato a sinistra dal movimento No Global, che da Seattle 1999 vede nella globalizzazione il nemico, a destra dagli estremisti isolazionisti. Nel 1995, quando il terrorista razzista Tim McVeigh fa saltare a Oklahoma City il Federal Building, la motivazione è il suo odio per il New World Order. Clinton guiderà il mondo contro Milosevic nei Balcani, fermando i pogrom in Kosovo e la guerra ma poi il multilateralismo si insabbia, un mondo senza ordine. 

L’attacco alle Torri Gemelle manda gli Usa in guerra a Kabul e Baghdad, ma dieci anni dopo - come dice il segretario Kerry - «l’America è stanca di guerra» come la ragazza Teresa Batista del romanzo di Jorge Amado. Il deputato populista di destra Ron Paul dice: «No alla guerra in Siria, che ce ne importa, non abbiamo i soldi, non dobbiamo perdere soldati, se la vedano tra di loro». 

Il dilemma di oggi è: avremo un mondo senza arbitro, senza superpotenza? Quando la Cina sembra agire con troppa foga nell’Oceano Pacifico, quando vara una flotta verso l’Oceano Indiano e una portaerei, Paesi amici come l’Australia, o ex nemici come il Vietnam, guardano subito agli Stati Uniti come freno. Gli australiani chiedono e ottengono un contingente di marines, il Vietnam condivide esercitazioni con gli americani che ha sconfitto nel 1975, «contro gli Usa abbiamo combattuto 20 anni, contro la Cina 2000». 

La posta in gioco oggi è questa divisa di arbitro, di agente del quartiere Mondo: hanno ancora gli Stati Uniti i soldi, le forze armate, il consenso, gli ideali e la visione per fungere da leader nel XXI secolo? Studiosi come Kishore Mahbubani parlano di «secolo asiatico», ma con la Cina ripiegata su una difficile transizione politica e l’India che rallenta la corsa economica, mentre la rupia perde valore, dall’Asia non si annunciano leader. La Russia è chiusa nel cerchio petrolifero e di astio per i diritti umani, dai gay alle Pussy Riot, di Putin. L’Europa, alle prese con una crisi economica e dell’euro che solo da poco dà qualche respiro, non sembra avere una prospettiva comune, Germania, Francia, Gran Bretagna, Polonia e Italia divise da interessi e culture. L’Europa superpotenza è oggi più lontana di quel che si sperava al momento della nascita dell’euro e dell’allargamento alle nuove democrazie a Est. 

In America i Tea Party come Occupy Wall Street, destra e sinistra populiste, non vogliono nessuna visione multilaterale, internazionalista, con Washington a creare coalizioni e consenso, tra Onu e mondo. Molti parlamentari sono attratti da questa scelta. Il voto del Congresso avrà conseguenze tattiche sulla guerra in Siria, il no rafforzando un poco Assad, il sì un poco indebolendolo, ma senza mutare alla fine l’esito dello scontro, che resterà incerto e doloroso: ogni minuto 4 siriani scelgono la strada dell’esilio. Ma il voto del Congresso sulla Siria avrà conseguenze strategiche sul mondo. La bocciatura di Obama ridurrà a lungo status, prestigio e credibilità americana. La sua vittoria confermerà a Russia, Cina, Iran, Hezbollah, Corea del Nord, come agli alleati, che Washington non intende abdicare al ruolo di playmaker per la diplomazia e l’economia globale. È evidente che nemici e amici dell’America attendano il voto con opposte speranze e uguale ansia. Come ha detto la senatrice Boxer, «stiamo votando se trasformarci o no in una tigre di carta». Sarebbe bello che gli europei, e l’Italia da due generazioni alleata dell’America, non stessero a guardare, volta a volta inerti, indifferenti, pilateschi o tifosi perbene ma costretti a nascondere la passione. E quando la Bella Addormentata Europa si sveglierà dal sonno domestico troverà un mondo cambiato e senza più principe azzurro o a stelle e strisce.

Gianni Riotta - link

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Grande America: canti patriottici e bandiere arcobaleno

6/27/2013

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Washington – Fuori dalla Corte Suprema, in questo mercoledì di fine giugno, ci sono quasi trenta gradi e forse cinquecento persone in festa ad attendere le due storiche sentenze della Corte Suprema, che per la prima volta si è espressa sui matrimoni fra persone dello stesso sesso. Ci sono coppie di ogni età felicemente abbracciate e sudate sotto il sole cocente della capitale, studenti di Berkeley che lanciano cori e canti patriottici, ombrelli per ripararsi dal sole, un giovane mormone gay che chiede di poter sposare il proprio fidanzato e una coppia di padri con due bambini. La più piccola, appena nata, si chiama Justice. “È proprio un bel giorno per chiamarsi così”, mi dice ridendo David, che ha 50 anni ed è uno dei suoi papà. Ci sono anche due mamme con due piccoli Superman che passeggiano sul prato che separa Corte Suprema e Capitol Hill, il parlamento americano.

Davanti a quel prato è seduto anche un solitario contestatore. Indossa una maglietta che inneggia a Gesù ed è convinto che Dio odi gli omosessuali. È rimasto là da lunedì mattina reggendo un cartello enorme, secondo il quale l’aids è una conseguenza della sodomia. Attorno a lui, però, decine di ragazzi lo sfidano a dibattere le sue idee parlando di scienza e religione, e si scattano foto circondandolo con le bandiere arcobaleno e con i cartelli in favore dell’uguaglianza del matrimonio.

Quella di oggi è una grande festa, la festa di chi si è liberato di decenni di discriminazioni. Nella calca non c’è aria né internet, ma si respirà l’intensità di questa giornata storica. Le decisioni della Corte Suprema si diffonderanno a voce, le sentenze si capiranno dagli sguardi e dalle reazioni della folla intorno. Ci sono occhi lucidi, urla e canti patriottici, l’inno nazionale cantato a squarciagola con le lacrime agli occhi dai giovani manifestanti stretti uno accanto all’altro e parti della dichiarazione d’indipendenza recitate con orgoglio. “Tutti gli uomini sono creati uguali”, urlano più volte i ragazzi sventolando cartelli. In questo mese e mezzo in tanti mi hanno detto che queste sentenze vanno oltre il matrimonio in sé, che sono importanti perché si tratta di diritti civili, come è stato cinquant’anni fa per gli afroamericani. “Stavolta è il nostro turno”, mi aveva detto Steve, un ragazzo che avevo conosciuto in un bar di West Hollywood, a Los Angeles.

Mentre guardo i ragazzi cantare commossi l’inno nazionale con grande fiducia nel proprio paese, partono le prima urla e si diffonde la voce della prima sentenza. “Il Doma è morto”, grida qualcuno abbastanza vicino alle postazioni televisive da avere notizie fresche. “Il Doma è morto”, cominciano a cantare i manifestanti, con le lacrime agli occhi o lo sguardo raggiante delle vittorie più belle. La terza sezione del Defense of Marriage Act, la legge che negava alle coppie omosessuali diritti e benefit a livello federale, è stata dichiarata incostituzionale. Il Doma è morto, la Corte Suprema – spaccata a metà – ha stabilito che si tratta di una legge discriminatoria per gli omosessuali. Il destino di questa legge firmata da Bill Clinton nel 1996 era segnato, con l’amministrazione Obama che si era rifiutata di difenderla davanti alla Corte Suprema, sostituita dai deputati repubblicani. Ora le coppie gay legalmente sposate avranno diritto agli stessi benefit di cui godono le coppie eterosessuali, a partire da immigrazione, tasse di successione, assistenza sanitaria e dichiarazioni dei redditi congiunte.

Ancora qualche minuto e arriva la decisione sulla Proposition 8, la legge californiana che definisce il matrimonio esclusivamente fra un uomo e una donna. È un’opinione più complessa, la Corte si dichiara non competente sulla questione. In questo modo sarà valida la sentenza del tribunale di San Francisco che nel 2010 aveva definito incostituzionale la Prop 8. Il risultato in questo caso va oltre le aspettative di tutti. È una decisione che spiana la strada al ritorno dei matrimoni gay in California, ma al tempo stesso preserva l’indipendenza degli Stati e il federalismo americano. Una sentenza diversa avrebbe provocato dure reazioni contro i nove giudici del massimo tribunale e contro il governo federale. Così invece resteranno gli Stati a decidere dei matrimoni gay, e sarà la California a dichiarare incostituzionale la Prop 8. La California potrebbe diventare ora il tredicesimo Stato a permettere i matrimoni gay, e se così fosse il 30% degli americani vivrebbe in giurisdizioni dove una coppia dello stesso sesso ha la possibilità di sposarsi.

Davanti alla Corte Suprema, sulle cui scale è vietato manifestare, si scatena una festa di abbracci, high-five e baci. Passano alcune macchine che suonano il clacson come succede da noi dopo una vittoria di Champions League. I manifestanti rivolgono cori e applausi ai vincitori che iniziano a uscire dalla Corte mano nella mano con gli avvocati, facendo un inchino di gioia come fossero attori di teatro al termine di una grande performance. È il momento più emozionante di una mattina storica, con i ragazzi in fondo alla scale che ringraziano e urlano “thank you, thank you” alle coppie californiane che hanno sconfitto la Prop 8 e a Edie Windsor, la signora di 83 anni che ha sfidato e ucciso il Doma.

È un momento molto americano, uno di quelli in cui capisci l’importanza e la forza di diritti e libertà individuali in questo Paese. Poi parte il coro “Usa, Usa”, un canto d’orgoglio e liberazione, con le bandiere a stelle e strisce che sventolano compatte insieme a quelle arcobaleno.

di Andrea Marinelli sul Corriere link
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Il sonno della ragione produce Grillo

4/22/2013

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da Il mensile del Sole 24 ORE, C.Rocca:

Il giorno delle surreali consultazioni in diretta streaming, tra Pier Luigi Bersani e quella band di politici comici arrivata terza alle elezioni, sarà ricordato come il momento preciso in cui è morto il Pci, il Partito comunista italiano. Una fine ingloriosa catturata dalla webcam della Casaleggio associati, il neo Politburo del pianeta Gaia prossimo venturo. L’umiliazione cui si è autosottoposto Bersani, quella mattina di fine marzo, non sarebbe mai stata possibile a cultura e tradizione del Pci ancora vigenti.

Invece di seguire il metodo Jack Bauer della serie tv 24 – cioè spegnere la webcam e prenderli a sberle, quei bambini in gita scolastica a Montecitorio accompagnati da Rocco Casalino del Grande Fratello e così supponenti nella loro nullità e ignoranza piena di risentimento – Bersani ha continuato a blandire gli improbabili interlocutori nell’acrobatica speranza di convincerli. Quelli stessi che un paio d’ore prima avevano detto che il pagamento dei debiti pregressi della Pubblica amministrazione a imprese e professionisti con l’acqua alla gola era «una porcata da fine legislatura».

Ma davvero il segretario del Pd e il suo staff pensavano di poter coinvolgere nel futuro del Paese questi rivoluzionari da collana Urania, laurea in Alabama e master in Dagospia? Questi figli di una casta padrona rimasta senza più un euro da distribuire e quindi riconvertita via Gabibbo all’assalto della Bastiglia? Questi zeri assoluti che sospettano complotti anche in un bicchiere di acqua gassata, mandavano provoloni Dop a Chávez e delirano di microchip sottocutanei impiantati surrettiziamente dagli americani, di scie chimiche prodotte dalle multinazionali, di piante di aloe anticancro e di mooncups per cicli femminili ecosostenibili? Pare di sì, a conferma che ha ragione Giuliano Ferrara quando scrive che il pragmatismo da Padania rossa è una filosofia buona per le parafarmacie e gli asili nido, non per la politica (non è un caso che le chiavi del vecchio Pci non siano mai state lasciate ai compagni emiliani).

E allora che cosa può fare, per evitare altre umiliazioni, un partito come il Pd a vocazione maggioritaria e ora anche suicida? Consegnarsi a Matteo Renzi, certo. Ma basterà? Improbabile.
Una via d’uscita può arrivare dall’America, come spesso capita. Non da Barack Obama, questa volta, ma da un partito ancora più disastrato del Pd, il Grand Old Party, il Partito repubblicano. Dopo l’ennesima batosta elettorale e un flirt letale con il web populismo testone dei Tea Party, i conservatori americani hanno iniziato a ragionare sul futuro. Qualche giorno fa hanno elaborato un documento di cento pagine, carinamente chiamato l’Autopsia, con alcune proposte per risuscitare. Un’analisi impietosa. Un’autopsia completa delle idee da rottamare e delle battaglie da abbandonare.

Gli errori sull’immigrazione, sui diritti dei gay, sull’immagine di partito per soli ricchi. Si può ripartire solo riconoscendo e superando i propri tabù, è la lezione.
La stessa cosa dovrebbe fare il Pd (per non parlare del Pdl). Il Pd dovrebbe abbandonare ogni politica economica che continui a sembrare dettata da invidia e rancore sociale. Battersi soltanto contro la povertà, non contro la ricchezza. Togliersi di dosso la fastidiosissima aria di superiorità antropologica. Smetterla di considerare gli altri come «impresentabili» (Lucia Annunziata), «troie» (Franco Battiato), «mafiosi» (più o meno tutti). Desistere dal dare di «fascisti» o di «costole della sinistra», a seconda della convenienza politica del momento. Non funziona più. Non ha mai funzionato. Anzi spesso è stato controproducente, come dimostra l’approdo finale del giustizialismo manettaro, nato in area Pds e l’Unità ma finito ad azzannare il collo dello stesso Pd.
È pericoloso, anche. In questa situazione di crisi finanziaria, di conti sballati e di mercati in subbuglio ci si fa molto male a inseguire chi parla di decrescita felice e vuole indire un referendum contro l’euro, senza peraltro sapere che è incostituzionale a norma dell’articolo 75.

Invettiva personale a parte, la storia di copertina di questo numero racconta l’attacco all’Europa, lo spettro del populismo che si aggira per il continente e che rischia di affondarci. Spiega che cosa vuol dire esattamente uscire dall’Europa e soprattutto se sia possibile o conveniente (non lo è). Ascolta anche le voci più ragionevoli contro l’esperimento europeo dallo storico Niall Ferguson al direttore della Die Zeit Josef Joffe, ben contrastati però da Daniel Cohn-Bendit e da sir Peter Mandelson. Buona lettura.

Christian Rocca*
L’autore di questo articolo è cresciuto ad Alcamo (Tp) e non si dà pace che sia diventata la città più grillina d’Italia (48,1%).

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Miopia dell'Occidente

9/13/2012

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Il giorno dopo l'11 settembre Dell'assalto al consolato americano a Bengasi e dell'uccisione dell'ambasciatore Chris Stevens e di altri funzionari si possono dare due interpretazioni. La prima fa riferimento al caos libico. Le elezioni di luglio, con la sconfitta degli islamici estremisti e la vittoria di una coalizione guidata da un filoccidentale (Mahmud Jibril) sono apparse rassicuranti agli osservatori occidentali, ma non hanno nascosto a lungo la realtà: il fatto che la Libia sia tecnicamente un failed State , uno Stato fallito, nel quale non esiste monopolio statale della forza e ove scorrazzano tante milizie armate fuori dal controllo del governo. La tragedia di Bengasi può essere letta, in questa prospettiva, come un episodio circoscritto, causato dalla natura della situazione libica.

Ma c'è anche un'altra interpretazione possibile. È quella che fa dei fatti di Bengasi (come indica la rivendicazione di Al Qaeda) il possibile avvio di una nuova fase della guerra antioccidentale di un estremismo islamico-sunnita uscito rafforzato dalle cosiddette rivoluzioni arabe. Non bisogna dimenticare che le dimostrazioni antiamericane degli estremisti salafiti contro il presunto film blasfemo su Maometto cominciano in Egitto e rimbalzano in Libia qualche ora dopo. In Egitto governano oggi i Fratelli Musulmani ma i salafiti, l'ala più estremista dell'islamismo, ottennero, nelle prime elezioni del post Mubarak, un eccellente risultato elettorale. È una presenza che condiziona, e condizionerà, l'evoluzione politica. È solo ironia della sorte il fatto che si manifesti di nuovo l'ostilità antioccidentale in Paesi in cui, diplomaticamente (Egitto) o militarmente (Libia), l'Occidente si era speso a favore dei rivoluzionari e contro i vecchi dittatori? O è anche il frutto degli errori di lettura delle rivolte arabe dello scorso anno? Si pensi, per esempio, al fatto che gli occidentali non si avvidero che l'abbattimento della torva dittatura di Gheddafi avrebbe spalancato le porte, come è avvenuto, al dilagare dell'estremismo islamico nel Mali e in altre aree adiacenti.

Ma si pensi, soprattutto, al fraintendimento del significato dei processi di democratizzazione che fu proprio di molti media occidentali quando scoppiarono le rivolte in Tunisia e in Egitto. Non si capì che la democratizzazione è un bene ma solo se non prende una piega illiberale. Dal momento che le democrazie illiberali possono essere persino più opprimenti delle dittature per le minoranze interne e, spesso, più pericolose sul piano internazionale. È il dilemma che ha oggi l'Occidente di fronte alla guerra civile siriana. È giusto appoggiare i ribelli ma solo a patto che siano i «ribelli giusti». Altrimenti, si passa dalla padella alle braci, da una dittatura sanguinaria a un regime, magari formalmente più democratico, ma altrettanto sanguinario.

Vuoi in variante realista (i Fratelli Musulmani), vuoi in variante estremista, l'islamismo militante è in ascesa in Medio Oriente. Ne derivano due conseguenze. La prima è che gli Stati Uniti sono chiamati a valutare se le loro scelte strategiche non abbiano un urgente bisogno di revisione (l'uccisione di Stevens fa irrompere la politica estera in una campagna presidenziale che fin qui ha parlato soprattutto d'altro). Nell'undicesimo anniversario dell'11 Settembre gli Stati Uniti devono riconoscere che nemmeno la morte di Bin Laden ha fermato la minaccia. La seconda conseguenza è che l'Europa dovrà prepararsi a fronteggiare gli effetti, anche in casa propria, dell'ascesa islamista. Poiché la sicurezza è altrettanto vitale della difesa dell'euro e della crescita economica.

Panebianco, dal Corriere di oggi link
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Il terzo radicalismo

5/22/2012

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tratto da Il Giornale di oggi:

Quali sono stati i due movimenti politici più importanti che negli ultimi due secoli si sono opposti con maggior determinazione all’avvento della modernità laica ed edonistica rappresentata dal capitalismo? Non c’è dubbio: il comunismo e il nazionalsocialismo. È la tesi di Ernst Nolte, il quale però ora aggiunge alla lista un terzo nemico della società aperta, l’islamismo nel nuovo saggio Il terzo radicalismo. Islam e Occidente nel XXI secolo , Edizioni Liberal, pagg. 341, euro 23.

Venticinque anni fa lo storico tedesco scandalizzò la storiografia mondiale affermando che la causa del nazismo andava ricercata nel comunismo. Con la rivoluzione d’Ottobre il bolscevismo si presenta come un fenomeno mondiale che tenta l’annientamento di ogni borghesia nazionale, cioè uno sterminio generalizzato di classe, dando inizio alla guerra civile europea. Di qui la reazione nazista: allo sterminio di classe viene opposto lo sterminio di razza. Scatta un antagonismo imitativo, la creazione originale produce una copia: il Gulag genera Auschwitz.

Ora Nolte ritorna all’idea della comparabilità tra comunismo e nazismo ponendola quale premessa per la comprensione storica del terzo grande radicalismo avverso alla modernità e all’Occidente: l’islam. Anche l’islam, infatti, è un fenomeno antimoderno perché la sua intima natura è data dalla negazione radicale del progresso volto ad unificare il mondo con lo sviluppo tecnico scientifico iniziato con l’illuminismo e la rivoluzione industriale. Il comunismo, il nazismo e l’islamismo, con diversi intenti, sono risposte «religiose» tese a fermare l’avanzata rivoluzionaria del capitalismo.
Naturalmente va osservato che mentre il comunismo e il nazismo sono nati all’interno dell’Occidente, essendo un prodotto estremo della secolarizzazione, l’islamismo ne è del tutto estraneo. Comunque, a fronte del processo della modernità, definito da Nolte «omogeneizzazione distruttrice dell’identità» e «secolarismo antropocentrico», il comunismo, il nazismo e l’islamismo, «nonostante le profonde differenze», risultano convergenti per «il fondamento comune» dovuto al loro «conservatorismo rivoluzionario». Con questo ossimoro lo storico tedesco afferma che i tre movimenti risultano radicalmente avversi alla modernità, e in questa avversione manifestano la loro dimensione rivoluzionaria; però, nello stesso tempo, esprimono una comune propensione conservatrice perché non accettano l’espansione universale e trasformatrice della società liberale, laica ed edonistica.

Nolte descrive storicamente l’avversione islamica all’Occidente partendo dalla Prima guerra mondiale per giungere fino ai nostri giorni. La sua attenzione è rivolta in modo particolare verso lo Stato d’Israele, definito giustamente la fonte della modernità nel contesto del mondo islamico; mentre del tutto discutibile è la sua distinzione fra antisemitismo e antisionismo, che di fatto riecheggia gli stereotipi propri del terzomondismo islamico. Detto questo, osserviamo, da parte nostra, che la vittoria definitiva del capitalismo sul comunismo ha dissolto ogni vera alternativa storica al capitalismo medesimo. Il comunismo, infatti, era un sistema socio-economico radicalmente opposto perché pretendeva di costituire un mondo superiore rispetto al mercato e alla proprietà privata. La realtà islamica, invece, non ha nulla di tutto questo, non avendo un suo specifico sistema di produzione e di distribuzione della ricchezza, né di organizzazione tecnica delle risorse, vale a dire un sistema che sia congruo al proprio finalismo religioso: il sapere teologico del clero sciita nulla sa della gestione dei pozzi petroliferi. L’islam è radicalmente opposto all’Occidente solo in termini religiosi e politici.

La mancanza di una competizione tra assetti economici opposti e alternativi indica perciò il senso vero della competizione in atto, vale a dire la lotta mortale tra laicità e religione.
L’avanzata della modernità produce degli esiti incontrollabili, come osservò, con straordinaria lucidità, Oriana Fallaci. Ne consegue, purtroppo, la quasi impossibilità di una comparazione tranquilla tra la civiltà occidentale e quella islamica; permane, insomma, quello scontro di civiltà, già rilevato a suo tempo da Samuel Huntington.

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La Polizia del Pensiero (tratto dal Sole 24 Ore)

5/10/2012

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Introduzione di Christian Rocca
In 1984, George Orwell si era inventato la "Thought Police", la polizia del pensiero (nella traduzione italiana chiamata la psicopolizia), un espediente narrativo per fornire al sistema totalitario guidato dal Grande Fratello lo strumento di coercizione più invasivo che l'essere umano potesse immaginare e sopportare: il controllo del pensiero ventiquattr'ore su ventiquattro.

Il controllo poliziesco del pensiero significava annullamento del pensiero, cancellazione dell'individuo, schiavitù. «Il Grande Fratello vi guarda», minacciavano le scritte sulle strade di Oceania. I sudditi del regime di conseguenza erano costretti a non pensare. Erano costretti ad annullarsi per evitare guai. «Si doveva vivere (o meglio si viveva, per un'abitudine, che era diventata, infine, istinto) tenendo presente che qualsiasi suono prodotto sarebbe stato udito e che, a meno di essere al buio, ogni movimento sarebbe stato visto», si legge già alle prime pagine di 1984, assieme a Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler uno dei testi letterari definitivi sul totalitarismo.

Che cosa c'entrano George Orwell e i sistemi totalitari del Novecento con l'ideologia militante dell'Islam radicale e la minaccia alla libertà di pensiero di cui parla questo saggio scritto da Paul Berman?
C'entrano. Oggi, argomenta Berman, l'Islam radicale si è posto l'obiettivo politico di restringere i limiti di ciò che è consentito pensare, sia nella società occidentale sia nel mondo islamico. L'ideologia islamista e le sue squadracce non minacciano soltanto la libertà di espressione, puntano addirittura a controllare la libertà di pensiero. L'Islam radicale si è trasformato nella psicopolizia del romanzo di Orwell. Se non ce ne accorgiamo, avverte Berman, possiamo dire addio società liberale.
Paul Berman è un intellettuale americano liberal e di sinistra da anni impegnato a spiegare come la battaglia contro l'Islam politico è la diretta continuazione della lotta contro gli altri totalitarismi del Novecento, il nazifascismo e il comunismo. In Terrore e liberalismo (Einaudi, 2004), Berman aveva illuminato con precisione la connessione ideologica tra l'islamismo, il nazionalismo arabo e i movimenti totalitari del ventesimo secolo.

A poco a poco l'attenzione di Berman si è spostata sugli intellettuali del mondo libero, in particolare quelli che non sono stati capaci di individuare nell'estremismo islamico, e nemmeno nella dittatura nazionalista di Saddam Hussein, la versione moderna della minaccia totalitaria del secolo scorso. Affrontare e contrastare sul piano delle idee questo pericolo, secondo Berman, non è soltanto la cosa giusta da fare, ma quella moralmente doverosa.

Gli intellettuali, ha scritto Berman nel saggio del 2010 intitolato The Flight of Intellectuals (incomprensibilmente non ancora tradotto in italiano), scappano di fronte alla realtà e non assolvono il loro compito che in teoria è quello di spiegare all'opinione pubblica che cosa sta succedendo. I maître à penser occidentali vedono la minaccia di un movimento politico autoritario e totalitario che dice di agire in nome dell'Islam ma, invece di denunciare la barbarie e le intimidazioni, preferiscono fuggire dalle loro responsabilità. Stanno zitti. Rinunciano al loro ruolo. Depotenziano il dibattito. Evitano la discussione. Fanno anche di peggio: accusano i dissidenti e gli spiriti liberi di quelle società, ridicolizzano il loro coraggio. Li disprezzano, anche. Assieme a chiunque prenda le loro difese.

Non è stato sempre così. Nel 1989, il mondo intellettuale si è schierato con Salman Rushdie, quando lo scrittore è stato condannato a morte dalla fatwa religiosa emanata dall'ayatollah iraniano Khomeini, ma allora non era ancora evidente la capacità di intimidazione dell'Islam politico. In nome della libertà di espressione, durante il caso Rushdie le guide morali del mondo libero si sono mobilitate a favore dell'autore dei Versi satanici. I Rushdie dei nostri giorni – da Ayaan Hirsi Ali a Ibn Warraq – sono meno fortunati. Vengono liquidati come personaggi insignificanti, ignoranti, non rappresentativi. Non valgono quanto i leader del movimento islamista che fingono di essere moderati, come Tariq Ramadan.

Secondo Berman, la ragione di questa fuga degli intellettuali è più semplice di quanto possa sembrare: «Pensano sia meglio stare alla larga da autori che definiscono provocatori, temono sia troppo pericoloso sostenerli, sono intimiditi».
Con la polizia del pensiero a vigilare, l'intimidazione e la paura diventano sentimenti decisamente più efficaci della rabbia e dell'orgoglio di chi denuncia l'oppressione e l'intolleranza. La nuova riflessione di Berman, contenuta in questo saggio pubblicato da IL in esclusiva italiana, si concentra su un rischio apparentemente lontano per la società aperta, ma che in realtà è più pericoloso e attuale degli atti di violenza terroristica. Un pericolo di tipo orwelliano.

Berman non è solo in questa battaglia. L'editorialista dell'Observer britannico, Nick Cohen, su questo tema ha scritto un saggio dal titolo You Can't Read This Book (dedicato a Christopher Hitchens, uno che dal caso Rushdie fino al suo ultimo giorno di vita non si è mai dato alla fuga). Cohen sostiene che non è vero che stiamo vivendo un'epoca di libertà senza precedenti, come si usa dire con un pizzico di ingenuità. Chi offende la religione musulmana, anche solo con una vignetta o con un romanzo, mette a rischio la propria vita. Il risultato diretto è l'autocensura, la fine della società aperta. A vigilare che tutto vada secondo i precetti ideologici c'è la polizia del pensiero, temibile per la sua capacità di intimidire e facilitata nel compito coercitivo dall'abdicazione dell'élite culturale.

Bruce Bawer, scrittore americano in trasferta in Norvegia, definisce «nuovi Quisling» quegli intellettuali occidentali che si oppongono al dibattito sul totalitarismo musulmano e cercano di controllare la conversazione sull'Islam in modo che non offenda i suoi principi ideologici. "Nuovi Quisling" è un insulto feroce.
Vidkun Quisling è stato il gerarca fascista norvegese che ha governato il suo Paese con il pugno di ferro per conto dei nazisti. Quisling, insomma, è il simbolo del collaborazionismo con il male assoluto. In The New Quislings: How the International Left Used the Oslo Massacre to Silence Debate About Islam, appena pubblicato da Harper Collins ed edito da Adam Bellow, il figlio di Saul, Bawer ha replicato con veemenza a chi ha strumentalizzato la lucida follia assassina di Anders Breivik, il massacratore locale dei ragazzi di Oslo, per delegittimare i pochi critici dell'ideologia islamista.

Gli articoli di Bawer sono stati citati nel lungo e delirante manifesto lasciato da Breivik e, per questo, con una dose eccessiva di cinismo sono stati successivamente collegati all'azione omicida del solitario assassino norvegese. Da qui la passione personale, talvolta scomposta, di Bawer nel rilanciare attaccando chi ha approfittato di una strage di adolescenti per silenziare il dibattito sull'Islam.
Il saggio di Paul Berman è più sereno, sine ira ac studio, senza ira né pregiudizi, ma il punto di arrivo è lo stesso: la società aperta non si può permettere di ignorare la campagna globale islamista per la limitazione della libertà di pensiero attraverso l'intimidazione.


Testo di Paul Berman
Come si spiega il successo continuo e spettacolare in tutto il mondo dei movimenti politici che si richiamano apertamente a dottrine islamiche e a programmi radicali? Qualcuno pensa che sia l'Islam stesso, l'antica religione, a prescrivere i principi della teocrazia e della conquista globale, e che l'affermazione, oggi, dei movimenti radicali che si fanno portatori di queste idee non abbia bisogno di alcuna spiegazione. È una mera conseguenza logica della decolonizzazione che ha consentito al mondo islamico di recuperare gradualmente la sua natura profonda e autentica: uno sviluppo che si potrebbe perfino vedere come un ritorno – in qualche modo ammirevole – alla propria essenza.

Ma è soltanto un'opinione, mentre è un dato di fatto che in tutto il mondo si possono trovare studiosi islamici raffinati che sostengono che è vero il contrario, e cioè che l'Islam tradizionale contiene una varietà di correnti perfettamente compatibile con le moderne idee liberali: le tradizioni pacifiche del sufismo, ad esempio, e il lascito umanista dell'età dell'oro dell'Islam medievale. Alcuni di questi raffinati studiosi sono personalità di grandissimo rilievo, che occupano posizioni istituzionali di primo piano: per esempio l'ex presidente indonesiano Abdurrahman Wahid, oggi scomparso. Il presidente Wahid condannò aspramente i movimenti radicali, accusandoli di essere portatori di «un'ideologia estrema e perversa». Ma l'esempio del presidente Wahid e di quelli che la pensano come lui in tutto il mondo islamico non fa altro che sollevare un'ulteriore questione: perché i tanti pensatori islamici liberali, profondi conoscitori dei testi sacri, in molti Paesi non sono riusciti a sconfiggere, con la forza delle loro argomentazioni, i fautori di quell'ideologia estrema e perversa? Perché i progressisti e i moderati non sono riusciti a schiacciare i radicali?
Negli Stati Uniti, due ricercatori esperti di diritti umani, Paul Marshall e Nina Shea, hanno elaborato uno studio che affronta questo problema, intitolato Silenced e pubblicato dalla Cambridge University Press.

Marshall e Shea dimostrano che i portabandiera di un Islam radicale e politicizzato si sono proposti nel mondo islamico e non solo, un obbiettivo specifico, per nulla irrealistico o utopistico: restringere i confini di ciò che è lecito pensare per tutti gli altri. Il modo per raggiungere questo obbiettivo è invocare tabù sacri contro l'apostasia e la blasfemia, assieme a una serie di altri tabù (le «offese all'Islam», la «corruzione sulla terra», la «lotta contro Dio», la «stregoneria» e così via).
Gli ideologi radicali giudicano l'apostasia e la blasfemia come reati capitali punibili, secondo il codice della shari‘a, con la morte. In realtà i vari studiosi islamici liberali e moderati nella stragrande maggioranza dei casi non concordano con questa visione. Secondo gli islamici progressisti, la shari‘a dovrebbe essere vista come un'esortazione flessibile a rispettare una moralità devota, non come un rigido codice di punizioni temporali. La blasfemia e l'apostasia non sono viste con raccapriccio dagli studiosi non radicali, non c'è nemmeno consenso unanime sulla loro definizione. Sono materie aperte al dibattito, ma il dibattito è andato come è andato: le controargomentazioni dei liberali sono state schiacciate, i limiti di ciò che è lecito pensare si sono ristretti drasticamente. E il successo dei radicali è dovuto in misura significativa a un fattore importante e osservabile, che i due ricercatori americani sui diritti umani, Marshall e Shea, si sono sforzati di documentare: l'intimidazione sistematica. I radicali sono più che disposti a discutere secondo i metodi convenzionali, ma se gli argomenti non sono sufficienti sono altrettanto ben disposti a imporre la loro opinione. Dove i radicali sono al potere, questa imposizione è affidata alle forze in divisa, una realtà ben visibile in Paesi diversissimi fra loro come l'ultrarivoluzionaria Repubblica islamica d'Iran e l'ultraconservatrice monarchia wahabita della penisola araba. Ma l'imposizione poliziesca dei tabù dell'apostasia e della blasfemia giocava un ruolo anche nell'Egitto di Hosni Mubarak, dove il suo movimento politico, gli Ufficiali Liberi, nonostante gli ideali di modernità laica e le aspirazioni democratiche che sbandierava, ha stretto un'alleanza efficace con i semitollerati Fratelli musulmani. In altri Paesi ancora sono milizie non governative – ad esempio i Boko Haram in Nigeria – a farsi carico dell'imposizione forzata.

Ci sono anche le folle inferocite viste all'opera in vari luoghi, dall'Africa occidentale al Pakistan, e le bande di picchiatori.
I radicali hanno indirizzato la loro campagna contro l'apostasia e la blasfemia su varie categorie di individui, a cominciare dalle minoranze religiose. Nessuno si stupirà di sapere che per i cristiani che vivono in varie parti del mondo islamico questa sembra la nuova epoca dei leoni dell'antica Roma – stanno fuggendo in massa. In Sudan un governo islamista ha scatenato una guerra civile anche perché ha cercato di imporre ai cristiani e agli altri non musulmani delle regioni meridionali una versione spietata della shari‘a, e alla fine della guerra (anche se le violenze sembra che stiano ricominciando) il bilancio dei morti è di oltre due milioni di persone, di varie confessioni.
In Somalia gli islamisti considerano tutti i cristiani come apostati, e per questo uno dei gruppi islamisti ha invocato uno sterminio generalizzato. I cristiani subiscono persecuzioni anche in luoghi dove formalmente il Governo è laico e fa rispettare, in teoria, i diritti civili: è il caso dell'Algeria, dove, in risposta allo sdegno islamista contro i missionari, negli ultimi anni sono state esercitate pressioni governative su molte attività cristiane, spesso con il pretesto che i cristiani di Algeria sarebbero agenti di forze straniere. In Egitto i copti stanno iniziando a scappare, forse in gran numero.

Le pressioni più sistematiche si concentrano sui gruppi islamici eterodossi, come gli ismailiti, gli aleviti e gli ahmadi (perseguitati perfino in Indonesia, triste a dirsi), per non parlare dei rami collaterali dell'Islam, come i perseguitatissimi Baha'i. Inoltre, i militanti dell'Islam radicale tendono ad appendere l'etichetta di blasfemia al collo dei seguaci di quella, fra le due correnti principali della religione musulmana, che localmente si trova in minoranza, come i sunniti in Iran, dove la maggioranza è sciita, e gli sciiti in Pakistan e in Arabia Saudita, dove la maggioranza è sunnita. Di sicuro chiunque si sarà accorto che ormai da molti anni non passa quasi settimana senza che arrivi la notizia dell'ennesimo massacro indiscriminato di sciiti, a volte in una moschea, a volte a un corteo funebre: è un fenomeno molto accentuato in Iraq, ma anche in Pakistan e recentemente in Afghanistan. A volte interi gruppi etnici sono accusati di aver violato il tabù: la persecuzione dei cristiani in Algeria prende di mira in particolare i berberi, o cabili, in maggioranza musulmani ma con una certa percentuale di cristiani; gli islamisti sudanesi hanno accusato di apostasia i Nuba, mettendo in pericolo mezzo milione di persone (anche se non ci sono stati massacri generalizzati). Ovunque, le persecuzioni dei radicali si concentrano sugli umanisti, sui riformatori liberali e sui liberi pensatori dell'Islamslam. Illustri esponenti riformisti sono stati uccisi, e la persecuzione continua. Se seguite le notizie forse avrete notato il caso di un giornalista saudita di nome Hamza Kashgari, 23 anni, fuggito in Malaysia dopo aver pubblicato su Twitter tre messaggi riguardanti Maometto e che ora è stato rimandato in Arabia Saudita per rispondere di accuse di blasfemia, apostasia e ateismo, reati per cui è prevista la pena capitale.

E quando la persecuzione si abbatte su eretici e gruppi minoritari designati, anche i membri delle maggioranze privilegiate imparano la lezione. Ogni singolo individuo, nella riservatezza delle sue riflessioni personali, prenderà in considerazione le possibili conseguenze del lasciar vagare pensieri ribelli lungo strade proibite. È lo stesso Islam che finisce per rimanerne vittima: lo studioso liberale Abdullahi Ahmed An-Na'im osserva che se non hai la possibilità di abbandonare la tua religione non puoi apprezzare nemmeno la possibilità di abbracciarla liberamente. In circostanze come queste, chi oserà alzarsi in piedi per contrastare la marcia degli islamisti militanti? In sempre più Paesi, la maggioranza assoluta della popolazione guarda con disdegno e orrore ai paladini dell'Islam totalitario. Ma quella stessa maggioranza ha tutte le ragioni per tenere per sé le proprie opinioni: e chi tiene per sé le proprie opinioni dopo un po', di solito, non sa più quali siano. E in certi casi, come abbiamo imparato, la maggioranza si schiera dalla parte dei radicali, lasciando la responsabilità di fronteggiare la loro avanzata nelle mani di minoranze drammaticamente isolate.

I radicali a volte tengono d'occhio quello che succede in altre parti del mondo, un orientamento globale che aggiunge elementi nuovi alla questione. I leader dell'Islam di una volta generalmente non si curavano del rispetto della shari‘a in regioni del mondo non musulmane, e neanche i radicali: almeno fino a poco tempo fa. L'islamismo nella sua forma moderna e riconoscibile è nato negli anni 20 e 30 con la fondazione dei Fratelli musulmani in Egitto e di una manciata di movimenti gemelli in altri Paesi, e gli islamisti di quell'epoca sognavano più che altro di risuscitare l'antico califfato sacro nelle loro zone storiche di insediamento. L'idea non solo di risuscitare il califfato ma di espanderlo verso il resto del mondo era più che altro un retropensiero millenaristico, menzionabile ma, per così dire, non praticabile.

La nuova formulazione, più espansiva, dell'ideologia islamista, emerse solo con l'affaire Rushdie, nel 1988-1989, quando l'ayatollah Khomeini e altri leader giudicarono che il castigo fisico per l'atto satanico di scrivere e pubblicare I versi satanici dovesse essere impartito anche a chi pubblicava, traduceva e vendeva il libro in ogni parte del mondo, fino alla California (dove ci fu un incendio doloso) e al Giappone (dove ci fu un omicidio). L'era dell'l'affaire Rushdie non si è ancora conclusa. Marshall e Shea riassumono alcune delle sue perduranti manifestazioni: l'omicidio del regista olandese Theo Van Gogh in una strada di Amsterdam nel 2004; la reazione a una dozzina di vignette satiriche contro il terrorismo islamico pubblicate in Danimarca nel 2005, che generò dimostrazioni di massa, rivolte e attacchi incendiari per un bilancio complessivo di 241 vittime in tutto il mondo; i ripetuti tentativi di assassinare il vignettista danese Kurt Westergaard, autore della più citata e memorabile di quelle vignette (quella in cui si vede Maometto con una bomba infilata nel turbante), con arresti di aspiranti assassini in posti lontanissimi dalla Danimarca come Chicago; la reazione al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, in Germania, nel 2006, che provocò l'uccisione di fedeli cristiani in Iraq e in Somalia e attentati dinamitardi e sparatorie contro centri cristiani a Gaza e in Cisgiordania.

E ancora: la reazione a una vignetta sul profeta Maometto disegnata dall'artista e teorico dell'arte Lars Vilks, svedese, che ha portato a un piano per assassinarlo negli Stati Uniti (che includeva, tra gli autori, anche "Jihad Jane", la jihadista americana); la reazione a un film del politico di destra olandese Geert Wilders (come sottolineano Marshall e Shea, una delle poche persone, fra tutte quelle coinvolte in queste faccende, a manifestare realmente un'assoluta ostilità nei confronti dell'islam), che ha portato all'uccisione di un soldato olandese in Afghanistan; la reazione a un romanzo sentimentale della scrittrice americana Sherry Jones su una delle mogli di Maometto, che ha portato all'arresto di tre uomini che avevano tentato di appiccare il fuoco alla sede della casa editrice inglese (dopo che la Random House, negli Stati Uniti, aveva già fatto marcia indietro e scelto di non pubblicare il libro); la condanna di un uomo che aveva minacciato gli autori della serie televisiva South Park, anche se questi ultimi avevano deciso di recedere dal loro progetto di raffigurare Maometto in costume da orso; il pestaggio, a Oslo, di Kadra Noor, una femminista somalo-norvegese. E via discorrendo (ho limitato gli esempi ai casi di uccisioni o ferimenti di persone o arresti di sospetti terroristi e aggressori).

Casi di manifestazioni intellettuali o artistiche cancellate senza che fossero avvenute violenze o arresti sono diventati abbastanza comuni: la polizia olandese che ha raschiato via un murales contro l'omicidio di Van Gogh ad Amsterdam, la Whitechapel Art Gallery di Londra che ha rimosso alcune opere nel 2006, la Tate Gallery che ha cancellato una mostra, l'annullamento a Ginevra, nel 1993, di una rappresentazione della commedia di Voltaire Maometto ossia il fanatismo (seguito, una dozzina di anni più tardi, da una piccola rivolta quando la commedia di Voltaire è stata rappresentata in Francia), la rimozione delle vignette da un colto saggio sul caso delle vignette danesi pubblicato dalla Yale University Press, la cancellazione di un romanzo giallo tedesco sui delitti d'onore islamici nel 2009, la vignettista Molly Norris, del Seattle Weekly, che ha dovuto entrare in clandestinità dopo essere stata minacciata, la decisione di 800 quotidiani statunitensi di non pubblicare una vignetta di Wiley Miller. E così via. Le intimidazioni più significative naturalmente hanno colpito artisti e personaggi pubblici europei musulmani o di origine musulmana: il vescovo anglicano Michael Nazir-Ali, che si è convertito al cristianesimo; il coraggioso e moralmente scrupoloso giornalista italo-egiziano Magdi Allam, anche lui convertito (per mano nientemeno che del papa, tanto che ha preso come secondo nome Cristiano); la scrittrice e attivista Ayaan Hirsi Ali in Olanda, finché non ha lasciato il Paese; Necla Kelek, una femminista tedesca di origine turca; Ekin Deligöz, esponente politica dei Verdi tedeschi, anche lei di origine turca; Souad Sbai, la presidentessa dell'Associazione delle donne marocchine in Italia; e tanti, troppi altri nomi. Quasi tutte queste persone sono emigranti che dopo essere fuggiti dalla loro patria verso l'Europa si ritrovano costretti a fuggire di nuovo, e a volte a cambiare nome e farsi proteggere dalla polizia. Ci sono esempi in tal senso anche in Nordamerica: una campagna di minacce contro Tarek Fatah e i suoi colleghi del Canadian Muslim Congress, di orientamento riformista; le minacce contro la scrittrice canadese Irshad Manji, anche lei musulmana riformista; il pestaggio, sempre in Canada, di un giornalista di origine pachistana, Jawad Faizi; e la necessità per Ibn Warraq, perfino negli Stati Uniti, di adottare uno pseudonimo e muoversi con circospezione: Ibn Warraq è un brillante studioso di origine pachistana, autore di Virgins? What Virgins? e Perché non sono musulmano (quale sia il problema di Warraq lo si può capire già dai titoli dei suoi libri).
Potrei andare avanti, ma ho reso l'idea. I casi di storie di vite infelici come questi sono troppo numerosi per poterli liquidare come un fenomeno marginale.

La campagna antiblasfemia e antiapostasia nel frattempo ha fatto progressi su un altro terreno ancora, quello della legge. Cinquantasette Paesi in tutto il mondo aderiscono all'Oci, l'Organizzazione della cooperazione islamica (già Organizzazione della conferenza islamica), fondata dall'Arabia Saudita nel 1969. Non tutti i Governi dell'Oci sono di orientamento radicale, ma gli ideologi sembrano esercitare un'influenza sproporzionata. Nel 1990 l'organizzazione propose un sovvertimento totale della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Il nuovo documento si chiamava «Dichiarazione del Cairo sui diritti dell'uomo nell'islam» e affermava: «Tutti hanno il diritto di esprimere la loro opinione liberamente in maniera non contraria ai principi della shari‘a». E l'Oci ha anche lanciato una campagna per persuadere le Nazioni Unite a inserire nel diritto internazionale il rispetto della shari‘a.

Vale la pena chiedersi perché l'Oci dovrebbe preoccuparsi di fare una cosa del genere, e perché, più in generale, il movimento radicale abbia spostato il fulcro della sua azione dal già grandioso progetto di risuscitare un antico impero a quello di evangelizzare il pianeta. Ma non c'è niente di così misterioso se ci si prende la briga di leggere alcuni dei classici della letteratura islamista. L'ideologia «estrema e perversa» non è semplicemente, come molti danno per scontato, un ritorno alle devozioni e alle amputazioni dei tempi degli avi. È un'ideologia moderna, e come molte altre manie totalitarie di questo secolo la sua perversità è legata a una paranoia. La dottrina postula una teoria del complotto secondo la quale crociati e sionisti starebbero cospirando da secoli per distruggere l'Islam (nel caso dei sionisti fin dai tempi delle controversie di Medina, nel VII secolo). Certo, probabilmente nei ministeri degli Esteri mondiali, o anche nei Governi degli Stati che fanno parte dell'Oci, non sono in molti a coltivare questa esotica fantasia dell'alleanza crociato-sionista in tutta la sua gloria. Ma come il liquido versato da un bicchiere, l'esotica fantasia è capace di insinuarsi nel tessuto convenzionale delle paure moderne, diffuse in tutto il mondo, sulla potenza dell'Occidente e l'arroganza dei suoi modi e delle sue intenzioni.

Marshall e Shea, nel loro rapporto sui diritti umani, citano le presentazioni di un funzionario delle Nazioni Unite dal titolo magniloquente di Relatore speciale sul razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l'intolleranza, che dal 2003 al 2008 è stato un giurista senegalese di nome Doudou Diène. Secondo Diène le persone in Occidente che esprimevano preoccupazione per l'estremismo islamico stavano montando una specie di aggressione razzista contro i musulmani. Il Relatore speciale era turbato dall'islamofobia, una forma di timore irrazionale o di intolleranza sostenuta da giustificazioni teoretiche e ideologiche. In un'ottica come quella di Diène, perfino una serie di vignette innocenti o maliziose pubblicate su un quotidiano poco noto di un minuscolo Paese europeo come la Danimarca poteva apparire come un'arma islamofobica di eccezionale potenza, assimilabile a un intervento imperialista contro i musulmani di tutto il mondo: anzi, un'arma vera, tesa a provocare danno. In questo modo, le paranoie medievali su crociati ed ebrei del VII secolo possono essere spacciate per sofisticate denunce di residue o rinascenti ambizioni imperialistiche. E l'Oci ha scoperto che una campagna antiblasfemia, adeguatamente riformulata, è in grado di attirare consenso ben al di fuori della cerchia delle delegazioni musulmane.
L'Oci ha lanciato infatti altre proposte, sottoposte alle Nazioni Unite, per condannare la diffamazione ai danni dell'islam, o "islamofobia", e queste proposte in certi casi sono sfociate in risoluzioni non vincolanti delle varie commissioni per i diritti umani dell'Onu o addirittura dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Dopo un po', alcune democrazie occidentali hanno cominciato a irrigidirsi e le reazioni hanno indotto l'Oci a riformulare ingegnosamente le proposte, adottando un approccio più eclettico, per così dire, che consiste nel condannare in generale la diffamazione antireligiosa, come se dietro non ci fosse nessuna preferenza confessionale. Le risoluzioni condannavano "l'incitamento all'odio" e le "offese" nei confronti della religione, ma l'intento di fondo rimaneva invariato. Solo pochi mesi fa, nel novembre del 2011, un progetto iraniano, espresso nella «Dichiarazione e programma di azione di Teheran» del 2007, ha attirato altro consenso ancora, stavolta in favore di una risoluzione in difesa della "diversità culturale". Ma la retorica della "diversità culturale", come la retorica precedente sull'incitamento all'odio e le offese rivolte alle religioni in generale, rappresenta semplicemente un modo di più per chiedere la repressione con mezzi legali di qualunque cosa dia fastidio all'ideologia radicale.

Marshall e Shea sostengono con decisione che dopo tutti questi anni il progetto di mettere a tacere con mezzi legali le critiche in ogni parte del mondo è penetrato pian piano nel tessuto giuridico anche di Paesi che dovrebbero esserne immuni, e citano una serie di inquietanti episodi processuali, dalla causa intentata contro il più famoso romanziere francese, l'irriverente e scontroso Michel Houellebecq, obbligato a difendere di fronte a un giudice, nel 2002, il suo diritto di dichiarare l'Islam «la religione più stupida» (parafrasando quello che diceva Voltaire del cristianesimo, fra l'altro), ai problemi incontrati da uno dei più noti filosofi di Francia, il sobrio e rigoroso Alain Finkielkraut, anche lui oggetto di cause legali e perfino di minacce personali. È rassicurante ricordare che Houellebecq ha vinto la sua causa e che Finkielkraut è stato difeso nientemeno che da Nicolas Sarkozy: il repubblicanesimo francese non si abbasserà mai a irreggimentare le glorie della cultura transalpina. Ed è rassicurante anche apprendere che in Germania una rappresentazione dell'Idomeneo di Mozart, dove sono mostrate le teste recise di vari personaggi religiosi, fra cui anche il fondatore dell'islam, alla fine è andata in scena, dopo un momento di esitazione, in mezzo a un nervoso dispiegamento di poliziotti e scanner elettronici. Ed è rassicurante anche apprendere che negli Stati Uniti una piccola casa editrice si è fatta avanti per pubblicare il romanzo di Sherry Jones.

Vincere cause di questo tipo, però, può costare un bel po' di quattrini, e probabilmente una prospettiva del genere spegne in chiunque l'ardore per la difesa della libera espressione: è evidente nel caso dello scrittore canadese Mark Steyn, che ha dovuto difendersi a sue spese dalle querele, e nel caso di Daniel Scot, un pastore australiano che ha dovuto sostenere spese legali per centinaia di migliaia di dollari, secondo i suoi stessi calcoli. E poi c'è sempre la possibilità che una vittoria giudiziale, anche netta e incontestabile, lasci aperta la porta a sconfitte stragiudiziali: Marshall e Shea citano una causa del 2007, in Francia, contro il direttore del giornale satirico di sinistra Charlie-Hebdo, accusato di aver violato la legge per aver ripubblicato le vignette danesi, e debitamente assolto; ma pochi mesi fa, dopo che Charlie-Hebdo aveva annunciato un numero di satira sul movimento islamista, gli uffici parigini del settimanale sono stati devastati da un attentato incendiario.

Le questioni legali, e in parte anche gli episodi di violenza, mi sembrano comunque secondari rispetto a un fenomeno più generale (a livello mondiale) di autocensura del tutto volontaria, la tendenza a depotenziare certi argomenti giudicati sensibili o a evitare addirittura di pronunciare certe parole controverse, fingendo al tempo stesso di essere franchi e diretti. Tutti ormai avranno notato il velo di eufemismo che ha avvolto surrettiziamente la parola "moderato" quando questa viene applicata ai movimenti e ai leader islamisti. Un "moderato" è uno come Rachid Ghannouchi, il leader islamista tunisino, reduce dalla vittoria elettorale di ottobre, uno che nel corso degli anni ha parlato diffusamente delle «bande ebraiche, massoniche, sioniste e atee» e del «progetto satanico-talmudico» per creare un «nuovo ordine mondiale ebraico sulle rovine dell'ordine mondiale americano e occidentale», uno che ha definito le madri dei terroristi suicidi un «nuovo modello di donna» e più in generale ha parlato di «estinzione di Israele» o, in tempi più recenti e con terminologia più igienista, di «germe di Israele», da estirpare come la poliomielite. Ghannouchi è uno dei maggiori sostenitori mondiali di Hamas (gli islamisti palestinesi non sono mai stati molto ben forniti quanto a intellettuali, mentre Ghannouchi è un filosofo di grande cultura).
Anche Ghannouchi promette di rispettare le regole democratiche all'interno della Tunisia. Secondo gli standard islamisti, Ghannouchi è effettivamente un "moderato". Solo i germi del sionismo satanico-massonico devono temere lo sterminio per mano sua. Almeno per il momento! Ma come è possibile che la grande stampa occidentale abbia finito per accettare gli standard islamisti, al punto che ormai, da mesi, non passa quasi giorno senza dover leggere encomi della "moderazione" di Rachid Ghannouchi?

Esorto i più ottimisti fra i miei lettori a dare un'occhiata ai filmati su YouTube di un sermone tenuto dallo shaykh Yusuf al-Qaradawi in piazza Tahrir nel febbraio del 2011, di fronte a una folla enorme. Il suo sermone fu uno dei punti di svolta della Primavera Araba, il momento in cui i Fratelli musulmani finalmente decisero di mostrare i muscoli di fronte a un vasto pubblico. Al-Qaradawi è il religioso sunnita più conosciuto e ammirato nel mondo grazie alla sua trasmissione evangelica su al-Jazira, al di là del suo status di teologo capo dei Fratelli musulmani. In quell'occasione dedicò gran parte del suo sermone a celebrare la prima fase della nuova rivoluzione, esortando il popolo egiziano a proseguire nella sua lotta. Ma il discorso toccò l'apice quando si discostò dalle questioni egiziane per toccare il problema palestinese: Qaradawi pregò Dio di poter «assistere alla conquista della moschea di al-Aqsa» a Gerusalemme; in un'altra traduzione non si parlava di «conquista» ma di «apertura»: il senso però era chiaro, in tutti e due i casi.

Qaradawi è famoso per aver concesso una benedizione religiosa ai terroristi suicidi e alle politiche portate avanti da Hamas. Da questo punto di vista assomiglia a Rachid Ghannouchi, suo collega nel Consiglio europeo per la fatwa e la ricerca (ma Qaradawi è la figura di primo piano). Il titolo sbarazzino di «mufti delle operazioni di martirio» è qualcosa di cui Qaradawi si è autoinsignito in un accesso di humour macabro in diretta tv. L'invocata «conquista» o «apertura» della moschea di al-Aqsa, all'apice del suo sermone in piazza Tahrir, poteva significare soltanto il trionfo della jihad di Hamas. Qualcuno sostiene che non si sa che cosa comporterebbe una cosa del genere, ma è stato lo stesso Qaradawi a fornire qualche indizio: la jihad di Hamas significa il completamento di quello che Hitler cominciò molto tempo fa, agendo per conto di Dio; è un altro elemento del pensiero di Qaradawi, anche questo annunciato, insieme alla sua generale condanna del processo di pace, al suo sterminato pubblico televisivo. Quello che più mi colpisce del sermone di Qaradawi al Cairo è la reazione della folla a quelle ultime, accorate invocazioni. Una reazione oceanica. In alcuni di quei video sembra che un'onda gigantesca sollevi l'enorme piazza. Era qui che stava l'emozione rivoluzionaria: non per tutti gli egiziani, questo è ovvio, ma evidentemente per moltissime persone che hanno appena votato per uno dei partiti islamisti. Qui stava lo scopo della rivoluzione, apertamente dichiarato: non semplicemente il rovesciamento del faraone, ma la liberazione di Gerusalemme. La folla di piazza Tahrir è esplosa di emozione perché tantissime persone vedevano l'obbiettivo annunciato da Qaradawi come un'aspirazione trascendentale, una jihad spirituale e materiale al tempo stesso.

Eppure anche Qaradawi normalmente viene definito un "moderato". Perfino il suo sermone a piazza Tahrir è stato descritto e acclamato più volte come un esempio di "moderazione", senza il minimo accenno alla sua parte conclusiva. Come è possibile, quasi settant'anni dopo la sconfitta del nazismo, che un individuo del genere venga presentato come un "moderato", passando sopra alle sue invettive contro gli ebrei? E le omissioni tendono a essere sistematiche, come potete constatare con i vostri occhi leggendo alcuni dei saggi accademici più recenti, pubblicati dalle case editrici di prestigiose università, su persone come Qaradawi o Ghannouchi, o anche sul predecessore dell'uno e dell'altro, il teorico islamista Sayyid Qutb. I libri su questi personaggi sono scandalosi, nel loro complesso, per quello che omettono, vale a dire le espressioni più violente di fantasie e odi antisemiti. Silenced è il titolo del rapporto sui diritti umani di Marshall e Shea, e Self-Silenced dovrebbe essere il titolo da dare a un'analisi consuntiva di certi saggi di recente pubblicazione in Occidente.

Il problema dell'autocensura raggiunge livelli ancora più eclatanti. È la delicata questione di come i più potenti Governi occidentali siano arrivati a definire che cosa si può discutere e che cosa al contrario non può essere nemmeno menzionato. Così scrivono Marshall e Shea: «Nel 2008, negli Stati Uniti, il Dipartimento della Sicurezza interna e il Dipartimento di Stato hanno dato istruzioni ai loro dipendenti di evitare le parole "salafita", "wahhabita", "califfato" e "jihadista" in quanto considerate offensive dai musulmani se usate da non musulmani. Su raccomandazione di consulenti musulmani di cui non è stato fatto il nome si è anche rinunciato a usare la parola "libertà", sostituendola con "progresso". Nello stesso anno anche il ministero dell'Interno del Regno Unito ha smesso di usare il termine ‘terrorismo islamico', rimpiazzandolo con "attività anti islamica". Nel 2009, il segretario alla Sicurezza interna degli Stati Uniti ha sostituito ‘terrorismo islamico' con ‘disastri opera dell'uomo'. Il documento della Strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti diffuso nel maggio del 2010, che pure negli anni precedenti diceva che ‘la lotta contro il radicalismo islamico militante è il grande conflitto ideologico dei primi anni del XXI secolo', ha rimosso ogni riferimento all'‘estremismo islamico'».
Notizie vecchie? Il libro di Marshall e Shea le fa sembrare nuove di zecca. I due autori dipingono un panorama mondiale fatto di censura e autocensura, e le scene di violenze e intimidazioni suggeriscono che dietro a questa propensione per un orwellianesimo burocratico, a Washington o a Londra, potrebbe esserci qualcosa di più di una semplice discrezione diplomatica. L'isteria indotta ad arte sulla blasfemia e l'islamofobia ha sicuramente assolto uno scopo militare. Proprio ora, dopo la pubblicazione del libro di Marshall e Shea, le proteste contro i roghi non intenzionali di copie del Corano avvenuti in Afghanistan in febbraio hanno provocato 29 morti fra gli afghani e l'uccisione di 6 soldati americani, e anche qualcos'altro: un fremito visibile fra gli alleati Nato in Afghanistan, un sentore di sconfitta militare.

Che cosa possiamo concludere? Se non altro una cosa, a proposito dei diritti umani: il movimento dei diritti umani ha sempre tenuto sotto osservazione l'operato dei Governi repressivi, ma oggi dobbiamo renderci conto che anche i movimenti politici e religiosi che non detengono il potere sono in grado di esercitare repressione su larga scala, e questa repressione va analizzata e denunciata. Dobbiamo porci un paio di interrogativi, difficili da quantificare, ma comunque inquietanti: riguardano non soltanto il diritto a pensare liberamente, ma anche l'abitudine a farlo, perché ci vuole poco a perderla; e non stiamo parlando solo di Paesi lontani, ma anche di casa nostra, qui nella land of the free. Ma se siete aggiornati sui risultati delle elezioni in Nordafrica e sulle guerre civili in varie parti del mondo arabo, forse avrete giù intuito che la campagna mondiale per reprimere le critiche nei confronti del movimento islamista, documentata da Marshall e Shea, è in procinto di fare un colossale e preoccupante scatto in avanti, molto al di là di quanto abbiamo visto finora.

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Sharia: legge in Inghilterra

4/26/2012

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Per un passo avanti che la Gran Bretagna di Cameron fa, dandoci esempio di come non si può né si deve essere soggetti alla dittatura della finanza e della Germania (vedi il video di Nigel Farage), ne fa cento indietro. E sinceramente mi chiedo se questi inglesi abbiano tutte le rotelle al posto giusto. Ma andiamo con ordine. Per la gioia dell’Islam – che nei paesi in cui è religione dominante, reprime e sopprime chi è di religione diversa (e in particolare chi è di religione cristiana e/o ebrea) – la Gran Bretagna, paese occidentale per antonomasia, è diventata una nazione nella quale il “diritto islamico”, la cosiddetta sharia, è riconosciuta fonte di diritto civile.

  Roba da pazzi. Roba da regresso civile. E questo seppure il diritto inglese non sia mai stato un diritto di pregio nell’alveo dei complessi giuridici occidentali (sicuramente non è a livello di civiltà giuridica italico-germanica), fosse solo che (a parte qualche eccezione costituzionale) è un diritto non codificato ed è basato essenzialmente sul precedente giurisprudenziale (e dunque magmatico e poco incline alla cristallizzazione dei principi). Però è chiaro che la decisione delle autorità inglesi apre un pericoloso varco nell’occidente all’ingresso di norme nettamente in contrasto con i diritti fondamentali dell’uomo e la non discriminazione sessuale e religiosa.

Sappiamo bene tutti infatti che l’Islam è una religione fortemente intollerante, discriminatoria e tendenzialmente portata alla violenza contro chi non è islamico. Del resto, mentre Cristo predicava pace e fratellanza, accogliendo tutti, Maometto predicava discriminazione e sottomissione degli infedeli ai dettami dell’Islam. Non ci può essere dubbio in proposito. E se è pur vero che la cristianità ha commesso molti crimini, è anche vero che li ha commessi non perché seguiva i dettami del Vangelo, ma perché seguiva i dettami dell’egoismo e dell’avidità umana, che non sono evangelici. Nel contesto islamico, invece, la discriminazione dei diversi (donne e non musulmani) e la repressione della libertà di fede e di pensiero (con finalità di conversione forzata), sono connaturati al credo musulmano. In questi termini, “Non avrai altro Dio al di fuori di Allah” e “Maometto è il suo Profeta“ non sono nell’Islam semplici atti di fede introspettivi (e cioè rivolti solo a chi è fedele), sono leggi imperative, pesanti, fondamentali, inderogabili, che devono essere rispettate e fatte rispettare anche a chi non è islamico. Lo dimostrano le leggi islamiche in Iran e in Arabia Saudita, ma anche in Afghanistan e Pakistan.

Ciò detto, è chiaro che la decisione inglese viola i trattati internazionali (mondiali ed europei) che la Gran Bretagna ha sottoscritto e che tutelano la dignità umana e i diritti fondamentali dell’uomo. E in particolar modo viola la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e la Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali. E per farvi un esempio pratico di cosa significhi la introduzione della sharia in un paese occidentale, è sufficiente prendere in considerazione la posizione della donna. Per quasi tutti i diritti occidentali, la donna ha la capacità di agire al compimento del 18esimo anno di età (è così in Gran Bretagna come in Italia). Ebbene, per il diritto islamico invece una donna è giuridicamente capace di agire con il primo ciclo mestruale (che può anche verificarsi tra il decimo anno e il tredicesimo anno). Voi ben potete immaginare quali sarebbero le conseguenze per una ragazzina di cultura musulmana, là dove si dovesse decidere sul suo eventuale matrimonio con un cinquantenne alla quale è stata promessa sposa. E che dire poi dei rapporti familiari? Della supremazia degli uomini sulle donne della famiglia e sull’obbligo per queste di utilizzare quello strumento di umiliazione che si chiama burqa? La sharia del resto potrà essere ben utilizzata per legalizzarlo, e ogni giudice inglese sarebbe tenuto ad applicare la relativa norma islamica, se il musulmano (maschio) di turno lo rivendica.

Concludo con una riflessione. L’Europa cristiana e illuminista sta nettamente decadendo. Se non finirà in mano ai tecnocrati e agli affaristi, in un sistema dittatoriale basato sulla finanza e il liberismo selvaggio (sistema che ci renderà tutti più poveri e apatici), rischia di finire colonizzata da una cultura religiosa retrograda, maschilista e fortemente intollerante e discriminatoria. O semplicemente finirà per essere dominata da entrambi. Che è peggio.

dal blog: il Jester -link

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