da Il mensile del Sole 24 ORE, C.Rocca:
Il giorno delle surreali consultazioni in diretta streaming, tra Pier Luigi Bersani e quella band di politici comici arrivata terza alle elezioni, sarà ricordato come il momento preciso in cui è morto il Pci, il Partito comunista italiano. Una fine ingloriosa catturata dalla webcam della Casaleggio associati, il neo Politburo del pianeta Gaia prossimo venturo. L’umiliazione cui si è autosottoposto Bersani, quella mattina di fine marzo, non sarebbe mai stata possibile a cultura e tradizione del Pci ancora vigenti.
Invece di seguire il metodo Jack Bauer della serie tv 24 – cioè spegnere la webcam e prenderli a sberle, quei bambini in gita scolastica a Montecitorio accompagnati da Rocco Casalino del Grande Fratello e così supponenti nella loro nullità e ignoranza piena di risentimento – Bersani ha continuato a blandire gli improbabili interlocutori nell’acrobatica speranza di convincerli. Quelli stessi che un paio d’ore prima avevano detto che il pagamento dei debiti pregressi della Pubblica amministrazione a imprese e professionisti con l’acqua alla gola era «una porcata da fine legislatura».
Ma davvero il segretario del Pd e il suo staff pensavano di poter coinvolgere nel futuro del Paese questi rivoluzionari da collana Urania, laurea in Alabama e master in Dagospia? Questi figli di una casta padrona rimasta senza più un euro da distribuire e quindi riconvertita via Gabibbo all’assalto della Bastiglia? Questi zeri assoluti che sospettano complotti anche in un bicchiere di acqua gassata, mandavano provoloni Dop a Chávez e delirano di microchip sottocutanei impiantati surrettiziamente dagli americani, di scie chimiche prodotte dalle multinazionali, di piante di aloe anticancro e di mooncups per cicli femminili ecosostenibili? Pare di sì, a conferma che ha ragione Giuliano Ferrara quando scrive che il pragmatismo da Padania rossa è una filosofia buona per le parafarmacie e gli asili nido, non per la politica (non è un caso che le chiavi del vecchio Pci non siano mai state lasciate ai compagni emiliani).
E allora che cosa può fare, per evitare altre umiliazioni, un partito come il Pd a vocazione maggioritaria e ora anche suicida? Consegnarsi a Matteo Renzi, certo. Ma basterà? Improbabile.
Una via d’uscita può arrivare dall’America, come spesso capita. Non da Barack Obama, questa volta, ma da un partito ancora più disastrato del Pd, il Grand Old Party, il Partito repubblicano. Dopo l’ennesima batosta elettorale e un flirt letale con il web populismo testone dei Tea Party, i conservatori americani hanno iniziato a ragionare sul futuro. Qualche giorno fa hanno elaborato un documento di cento pagine, carinamente chiamato l’Autopsia, con alcune proposte per risuscitare. Un’analisi impietosa. Un’autopsia completa delle idee da rottamare e delle battaglie da abbandonare.
Gli errori sull’immigrazione, sui diritti dei gay, sull’immagine di partito per soli ricchi. Si può ripartire solo riconoscendo e superando i propri tabù, è la lezione.
La stessa cosa dovrebbe fare il Pd (per non parlare del Pdl). Il Pd dovrebbe abbandonare ogni politica economica che continui a sembrare dettata da invidia e rancore sociale. Battersi soltanto contro la povertà, non contro la ricchezza. Togliersi di dosso la fastidiosissima aria di superiorità antropologica. Smetterla di considerare gli altri come «impresentabili» (Lucia Annunziata), «troie» (Franco Battiato), «mafiosi» (più o meno tutti). Desistere dal dare di «fascisti» o di «costole della sinistra», a seconda della convenienza politica del momento. Non funziona più. Non ha mai funzionato. Anzi spesso è stato controproducente, come dimostra l’approdo finale del giustizialismo manettaro, nato in area Pds e l’Unità ma finito ad azzannare il collo dello stesso Pd.
È pericoloso, anche. In questa situazione di crisi finanziaria, di conti sballati e di mercati in subbuglio ci si fa molto male a inseguire chi parla di decrescita felice e vuole indire un referendum contro l’euro, senza peraltro sapere che è incostituzionale a norma dell’articolo 75.
Invettiva personale a parte, la storia di copertina di questo numero racconta l’attacco all’Europa, lo spettro del populismo che si aggira per il continente e che rischia di affondarci. Spiega che cosa vuol dire esattamente uscire dall’Europa e soprattutto se sia possibile o conveniente (non lo è). Ascolta anche le voci più ragionevoli contro l’esperimento europeo dallo storico Niall Ferguson al direttore della Die Zeit Josef Joffe, ben contrastati però da Daniel Cohn-Bendit e da sir Peter Mandelson. Buona lettura.
Christian Rocca*
L’autore di questo articolo è cresciuto ad Alcamo (Tp) e non si dà pace che sia diventata la città più grillina d’Italia (48,1%).
Il giorno delle surreali consultazioni in diretta streaming, tra Pier Luigi Bersani e quella band di politici comici arrivata terza alle elezioni, sarà ricordato come il momento preciso in cui è morto il Pci, il Partito comunista italiano. Una fine ingloriosa catturata dalla webcam della Casaleggio associati, il neo Politburo del pianeta Gaia prossimo venturo. L’umiliazione cui si è autosottoposto Bersani, quella mattina di fine marzo, non sarebbe mai stata possibile a cultura e tradizione del Pci ancora vigenti.
Invece di seguire il metodo Jack Bauer della serie tv 24 – cioè spegnere la webcam e prenderli a sberle, quei bambini in gita scolastica a Montecitorio accompagnati da Rocco Casalino del Grande Fratello e così supponenti nella loro nullità e ignoranza piena di risentimento – Bersani ha continuato a blandire gli improbabili interlocutori nell’acrobatica speranza di convincerli. Quelli stessi che un paio d’ore prima avevano detto che il pagamento dei debiti pregressi della Pubblica amministrazione a imprese e professionisti con l’acqua alla gola era «una porcata da fine legislatura».
Ma davvero il segretario del Pd e il suo staff pensavano di poter coinvolgere nel futuro del Paese questi rivoluzionari da collana Urania, laurea in Alabama e master in Dagospia? Questi figli di una casta padrona rimasta senza più un euro da distribuire e quindi riconvertita via Gabibbo all’assalto della Bastiglia? Questi zeri assoluti che sospettano complotti anche in un bicchiere di acqua gassata, mandavano provoloni Dop a Chávez e delirano di microchip sottocutanei impiantati surrettiziamente dagli americani, di scie chimiche prodotte dalle multinazionali, di piante di aloe anticancro e di mooncups per cicli femminili ecosostenibili? Pare di sì, a conferma che ha ragione Giuliano Ferrara quando scrive che il pragmatismo da Padania rossa è una filosofia buona per le parafarmacie e gli asili nido, non per la politica (non è un caso che le chiavi del vecchio Pci non siano mai state lasciate ai compagni emiliani).
E allora che cosa può fare, per evitare altre umiliazioni, un partito come il Pd a vocazione maggioritaria e ora anche suicida? Consegnarsi a Matteo Renzi, certo. Ma basterà? Improbabile.
Una via d’uscita può arrivare dall’America, come spesso capita. Non da Barack Obama, questa volta, ma da un partito ancora più disastrato del Pd, il Grand Old Party, il Partito repubblicano. Dopo l’ennesima batosta elettorale e un flirt letale con il web populismo testone dei Tea Party, i conservatori americani hanno iniziato a ragionare sul futuro. Qualche giorno fa hanno elaborato un documento di cento pagine, carinamente chiamato l’Autopsia, con alcune proposte per risuscitare. Un’analisi impietosa. Un’autopsia completa delle idee da rottamare e delle battaglie da abbandonare.
Gli errori sull’immigrazione, sui diritti dei gay, sull’immagine di partito per soli ricchi. Si può ripartire solo riconoscendo e superando i propri tabù, è la lezione.
La stessa cosa dovrebbe fare il Pd (per non parlare del Pdl). Il Pd dovrebbe abbandonare ogni politica economica che continui a sembrare dettata da invidia e rancore sociale. Battersi soltanto contro la povertà, non contro la ricchezza. Togliersi di dosso la fastidiosissima aria di superiorità antropologica. Smetterla di considerare gli altri come «impresentabili» (Lucia Annunziata), «troie» (Franco Battiato), «mafiosi» (più o meno tutti). Desistere dal dare di «fascisti» o di «costole della sinistra», a seconda della convenienza politica del momento. Non funziona più. Non ha mai funzionato. Anzi spesso è stato controproducente, come dimostra l’approdo finale del giustizialismo manettaro, nato in area Pds e l’Unità ma finito ad azzannare il collo dello stesso Pd.
È pericoloso, anche. In questa situazione di crisi finanziaria, di conti sballati e di mercati in subbuglio ci si fa molto male a inseguire chi parla di decrescita felice e vuole indire un referendum contro l’euro, senza peraltro sapere che è incostituzionale a norma dell’articolo 75.
Invettiva personale a parte, la storia di copertina di questo numero racconta l’attacco all’Europa, lo spettro del populismo che si aggira per il continente e che rischia di affondarci. Spiega che cosa vuol dire esattamente uscire dall’Europa e soprattutto se sia possibile o conveniente (non lo è). Ascolta anche le voci più ragionevoli contro l’esperimento europeo dallo storico Niall Ferguson al direttore della Die Zeit Josef Joffe, ben contrastati però da Daniel Cohn-Bendit e da sir Peter Mandelson. Buona lettura.
Christian Rocca*
L’autore di questo articolo è cresciuto ad Alcamo (Tp) e non si dà pace che sia diventata la città più grillina d’Italia (48,1%).